Se si amano le scarpe, almeno una volta nella vita bisogna andarci. Organizzate una gita: già Vigevano vale il viaggio per quell’incredibile Piazza Ducale che è considerata tra le più belle piazze del mondo e che venne fatta costruire da Ludovico il Moro alla fine del 1400 proprio come sontuosa “anticamera” del Castello dove oggi si trova il museo.
Piccolo e ben strutturato, il museo è stato costituito negli anni ’50 attorno alla collezione dell’industriale Pietro Bertolini, ma la sua valorizzazione è legata alla passione di due designer del mondo calzaturiero: Armando Pollini e Andrea Pfister. La “storia” racconta di come entrambi abbiano smosso mari e monti, scomodato amicizie personali per ottenere modelli rarissimi e che non si siano tirati indietro dall’immane compito di contattare i vecchi artigiani della zona – da sempre famosa per la fabbricazione delle scarpe – alla ricerca di esemplari interessanti.
E in effetti la collezione è straordinaria sia per chi ama l’aspetto storico dell’oggetto scarpa sia per chi invece è più attirato dal costume e dal design.
Tra i pezzi che delineano la storia, il più antico risale al 1495 ed è una pianella attribuita a Beatrice d’Este, moglie di Ludovico il Moro, trovata per caso nel Castello stesso durante i lavori di restauro. Come si fa a sapere che l’aristocratico piedino calzava proprio questa scarpa? Semplice, sono stati eseguiti dei test al carbonio (uguali a quelli che servono a dare un’età ai fossili) e i risultati hanno fatto coincidere l’età della pianella al periodo in cui Beatrice viveva al Castello. E per di più a quei tempi la legge prescriveva che solo dame di altissimo rango potessero indossare calzature di questo genere: in pratica la duchessa e non molte altre.
Dal Rinascimento si passa alle pantofoline del Settecento in seta ricamata e poi alle scarpe ottocentesche di varie fogge e in vari materiali per arrivare infine a una serie di bellissimi stivaletti della Belle Èpoque. Sì, avete capito, proprio quegli stivaletti in cuoio o raso con tantissimi bottoncini per allacciare i quali era necessario armeggiare con una specie di uncinetto. Gioco di pazienza, ma il risultato era di un sexy!!
Le calzature storiche continuano fino ai giorni nostri con alcuni pezzi veramente singolari: per esempio una Mary Jane in pelle di pesce con profili dorati del 1930 oppure una calzatura da sera degli anni ’60 nella quale la calza è “incollata”al sottopiede di una décolleté formando quindi un tutt’uno oppure ancora una décolleté dalla tomaia a intrecci che curiosamente venne lavorata non battendo il pellame, ma… limandolo, il che le ha conferito una leggerezza straordinaria. Senza dimenticare un sandalo a stivaletto di Andrea Pfister dal tacco a forma di ananas e un sandalo di Emilio Pucci dalla tomaia costituita da un foulard di seta da intrecciare attorno al piede che non sfigurerebbero per le strade di oggi.
Ma è soprattutto chi vede nella scarpa un oggetto di design che trova qui modelli incredibili. Comincio da un modello di Alexander McQueen che proprio a Vigevano venne premiato come giovane e talentuosa promessa del design: un ankle boot (allora si chiamavano tronchetti) con plateau e tacco in ferro, decisamente non indossabile vista la pesantezza e creato probabilmente come esercitazione di stile.
Se siete alla ricerca di una creatività che già sconfina nell’arte , vi entusiasmerete (proprio come me) per il sandalo Inquietudo dal tacco a forma di cuore e la tomaia che evoca un reticolo di arterie: un pezzo ironico e al contempo “forte” a firma della shoe designer Sara Tognacci. A impronta tecnologica è invece l’ankle boot di United Nude con tacco e allacciatura in un solo pezzo semirigido in plastica.
Il modello più pazzo? Il copricapo realizzato dalla stilista finlandese Minna Parikka con quattro scarpe con zeppa e indossato da Lady Gaga durante un concerto. Ineguagliabile.
E se proprio non ce la fate ad andare ad ammirare di persona queste meraviglie, almeno fatevi un giro sul sito del museo: vi si trovano tutti i pezzi, fotografati (meglio di quanto non abbia fatto io) e didascalizzati con un’attenzione che di rado si trova nei piccoli musei.